XYZ

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In fondo in fondo tutto il problema sta nello spazio.
È nello spazio che percepiamo l’altro da noi che si relaziona con noi. E nello spazio concepiamo le nostre idee: ideiamo. Ideiamo anche la maniera di rappresentare le idee, le forme, insomma lo stesso spazio che ci avvolge e, fisicamente, ci fa essere nel tempo.
In fondo in fondo altro non siamo che dei punti collocati nello spazio e allora dobbiamo almeno cercare di identificare la nostra posizione e di rappresentarci insieme con tutto ciò che “arriva” alla nostra coscienza. Dunque abbiamo bisogno di crearci dei sistemi di riferimento funzionali.
Ad esempio: Ics, Ipsilon, o, ovvero un sistema di rette ortogonali che si intersecano tutte quante in un punto che chiamiamo origine. Sì, perché tutto ha un’origine, anche l’atto creativo che sta alla base dell’impulso estetico di una cosa che, per comodità, chiamiamo opera d’arte.
Possiamo concepire allora l’opera d’arte come un’idea collocata in un piano, in uno spazio bidimensionale che, da qualche secolo, è lecito chiamare piano cartesiano, il quale si fonda, in sostanza, su un sistema di coordinate a due dimensioni: ics e ipsilon, longitudo e latitudo, due rette che si incontrano in un punto o; all’origine appunto. Possiamo arrivare ad immaginare questo piano immerso orizzontalmente nello spazio fisico, nel pavimento e a metterci in piedi in un punto con il braccio sinistro teso in avanti e il braccio destro teso di lato, in modo da formare con le due braccia un angolo retto. Il punto sul quale ci troviamo rappresenta l'origine, la direzione del braccio destro, cartesianamente, rappresenta l'asse delle ascisse, la direzione del braccio sinistro l'asse delle ordinate.
D’accordo. Ma forse è troppo semplice. Non ci basta. No, da Giotto in poi, non basta più agli artisti, a coloro i quali si sentono chiamati a rappresentare (esteticamente non matematicamente) il mondo che sta dentro allo spazio.
È meglio dunque aggiungere una terza dimensione al piano e ottenere così uno spazio euclideo, tridimensionale, che ci pare una bella modellizzazione dello spazio fisico a noi più familiare (lo spazio che, illusoriamente, ci sembra realtà vera) e infatti, non a caso, è questa la modellizzazione usata dalla meccanica classica. Non per questo però abbiamo rinnegato la ratio cartesiana; per nulla. In definitiva non abbiamo fatto altro che adottare un sistema di riferimento cartesiano tridimensionale, formato da tre rette orientate perpendicolari tra loro e incidenti in un punto, denominato origine degli assi. I tre assi li chiamiamo allora ics, ipsilon e zeta e ci servono per identificare tre piani nello spazio (xy, xz e yz) e a dividerlo in otto ottanti, simili ai quattro quadranti formati dagli assi cartesiani in due dimensioni. Voilà, il gioco è fatto.
All’incirca è quanto ha pensato di fare Miriam Colognesi con quest’ultima serie di lavori fotografici che, giustamente, si chiama Icsipsilonzeta. L’artista ci propone però non soltanto una gabbia spaziale euclidea, bensì una serie di gabbie modulari, ovvero una moltiplicazione ritmica di uno spazio tridimensionale.
Attenzione però. Qui c’è l’inganno, ossia l’arte. Gli elementi modulari e spaziali che l’artista ci offre come quinte scenografiche per accadimenti minimali sono in realtà delle aberrazioni. Tranquilli. Aberrazioni non in senso morale (e sì che dagli artisti spesso ci si attende proprio questo), ma in senso ottico. E se deviazione dalla norma, dal principio costituito, c’è in queste immagini fotografiche, essa va intesa come alterazione percettiva, come snaturamento. Infatti l’artista ha realizzato una differenza tra l’immagine effettivamente ripresa e quella prodotta. La proiezione della scena reale, consistente in porzioni corporali umane, è stata geometricamente e luminosamente deformata; di poco, ma in modo tale che l’oggetto corporeo fotografato si metamorfizzasse in tre piani spaziali “astratti”, diventando così un contenitore.
Oggetti-presenze sono stati a questo punto inseriti nello spazio virtuale così prodotto. Di che si tratta? Mah… Allo spettatore il compito e il piacere di scoprirne la valenza simbolica, i legami analogici con qualche archetipo aureo – magari anche soltanto un uovo – che rimanda allo spazio profondo – non euclideo – dell’anima nostra.
Del resto ab ovo, in origine, era il caos.

MARCO JACCOND